Sono trascorsi circa dieci anni dal momento in cui Procter & Gamble teorizzò il cd. First Moment of Truth ovvero quel lasso di tempo di pochi secondi in cui il consumatore, trovandosi di fronte ad uno scaffale di prodotti di eguale natura, decide quale acquistare fra quelli proposti da diversi produttori. Tre i momenti fondamentali di questa teoria nel processo decisionale d’acquisto e quindi (i) lo stimolo (che fa emergere il bisogno per il tramite della pubblicità), (ii) il First moment of truth (che è di riconoscimento del prodotto sullo scaffale e di decisione su quale prendere) e il (iii) Second Moment of Truth (che nasce dall’esperienza di utilizzo).

Teoria “superata” nel 2011 allorquando Jim Lecinski di Google introdusse il concetto di  Zero Moment of Truth inteso come il momento in cui il consumatore, una volta ricevuto lo “stimolo” accede al web per reperire informazioni e decidere, in ragione delle valutazioni di altri consumatori, se acquistare o meno un prodotto. In altre parole i consumatori prima di recarsi in un punto vendita (o su un sito e-commerce) leggono recensioni, commenti e giudizi di altri utenti consultando social network e facendo ricerche sul web. Teoria questa avvalorata da una ricerca svolta proprio nel 2001 che ha portato a ritenere che ben l’84% dei consumatori fa del “Zero moment of truth” l’elemento fondamentale della decisione d’acquisto.

Ci si chiede, a questo punto, come dovrebbe essere vissuta da parte del consumatore la notizia di poche ore fa che Amazon ha dichiarato guerra a siti che pubblicizzano recensioni fasulle sul proprio sito di e-commerce, facendo aumentare la percezione della qualità di alcuni prodotti a discapito di altri. Forse con non troppo stupore se si pensa al fatto che recentemente anche TripAdvisor è stato al centro di contestazioni in merito all’affidabilità delle recensioni sul proprio portale. Così, molti di noi scoprono di aver optato per un Residence piuttosto che un altro per il semplice fatto che ad un perfetto sconosciuto, non necessariamente in buona fede, non sia piaciuto un servizio di accoglienza o, piuttosto, dichiari di aver trovato nel proprio consommè un minuscolo quanto simpatico animaletto nell’atto di godere della sua particolare beautyfarm.

E’ sempre più evidente come tutti in rete possano presentarsi, indipendentemente dal loro reale profilo, come produttori e consumatori, come neofiti o come esperti; il “potere della parola” ha lo stesso valore per tutti, purché le espressioni vengano reputate interessanti. Ma cosa può essere considerato realmente attendibile in un “ambiente” dove si è portati maggiormente a criticare e sottolineare, anche ingiustamente e senza cognizione di causa, aspetti negativi di un prodotto di cui si ignora magari l’utilità e dove, come commentato da un noto scrittore “anche per motivi di spazio si punta più sulla battuta brillante o provocatoria e d’effetto che sui contenuti”? Per qualche strano motivo, sono proprio i medesimi commenti negativi che si ritengono più interessanti e quindi meritevoli di influenzare le nostre scelte, di dirottare le nostre discussioni e di condizionare le nostre opinioni. Commenti negativi che assorbiamo e ci fanno ritenere di aver scelto in modo informato, consapevole, ponderato ma soprattutto libero. “Se non sei capace di prendere decisioni per te stesso gli altri le prenderanno per te, e vivrai una vita in catene” – cit. Stephen Littleword.

Andrebbe forse riconsiderata la bontà di una scelta di fronte allo scaffale per riscoprire l’esperienza dell’acquisto e della nostra capacità di individuare ciò che riteniamo essere più confacente alle nostre esigenze senza che qualcuno possa condizionarci (se non un commesso particolarmente invadente).

Luca Silva

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