Al giorno d’oggi è evidente come tutto, o quasi, sia condivisibile e lo sharing funziona di più del baratto in epoca egiziana: dalla condivisione di beni comuni – come borse o scarpe – si è giunti a quella di beni funzionali – quali macchine o biciclette – per giungere allo sharing di forniture di servizi vere e proprie.

Va da sé che a ciascuno di noi garberebbe parecchio poter condividere il proprio abbonamento al tram o la tessera del cinema, ma vi sono regole che spesso non consentono una agile e serena condivisione di tutto ciò che si vorrebbe, come piacerebbe ai libertini del web. C’è chi grida allo scandalo, all’imbavagliamento delle libertà fondamentali dell’uomo, ma ci sono diversi fattori (e soprattutto interessi) da tenere in considerazione. Partiamo dal principio.

Lo scorso giugno è stato lanciato sul web il portale www.togetherprice.com, il quale ha avuto anche un discreto seguito mediatico dovuto alla novità che portava con sé, ossia condividere abbonamenti ai principali servizi on demand presenti, come ad esempio Netflix, Infinity, Apple Music.

Le modalità di funzionamento del servizio sono state chiarite in modo più esplicito attraverso vari articoli pubblicati sul web: il portale offre la possibilità di condividere l’utilizzo degli account multipli di vari servizi digitali che, come per esempio Netflix, consentono agli abbonati l’accesso alle opere diffuse con più dispositivi. In questo modo possono essere suddivisi, e quindi abbattuti, i costi dell’abbonamento fra i soggetti partecipanti alla condivisione.

Operativamente è tutto molto semplice: ci si registra gratuitamente alla piattaforma e si può creare una proposta di condivisione. Una volta completato l’inserimento, il sistema genera una url personalizzata che l’utente può condividere a piacimento, pubblicamente, dove preferisce. Chi clicca sul link, accetta l’invito ed entra automaticamente nel gruppo di condivisione.

Infine “L’Utente del Sito riconosce e garantisce di: […]- non pubblicare materiale soggetto a diritti proprietari di terzi senza averne licenza e/o formale autorizzazione del proprietario oppure in violazione dei limiti da questa previsti […]; – non condividere Contenuti direttamente o indirettamente violativi del Copyright”. La responsabilità delle operazioni di condivisione è ribaltata totalmente sull’utente, anche se la piattaforma svolge un attività editoriale di catalogazione dei contenuti (ndr nella creazione del link di condivisione) che dovrebbe quantomeno assimilarla ad un hosting attivo, secondo gli ultimi e più consolidati orientamenti giurisprudenziali in materia.

A mio modesto e personale avviso – e ciò sembrerebbe essere anche stato ammesso da una delle fondatrici della start up romana, nel corso di una intervista alla stampa nazionale – si tratta di un vero e proprio marketplace delle condivisioni, alla stessa stregua di Ebay o Alibaba.

La tesi dei dei promotori di questi brillanti e fantasiosi sharer – ad avviso dello scrivente ampiamente opinabile – sarebbe quella di aver creato un servizio a destinazione squisitamente domestica, indirizzato quindi a famiglie e studenti universitari che, condividendo lo stesso contesto familiare, potrebbero trovare utile condividere anche le comunicazioni ed i pagamenti per i servizi che fra loro ripartiscono.

In primis – da una rapida disamina delle condizioni di servizio dei maggiori servizi on demand presenti sul mercato nazionale (ndr Infinity e Premium Play) – tale condivisione sarebbe contraria alle condizioni di utilizzo dei servizi: difatti  essi vincolano il contraente ad usufruire dei relativi contenuti soltanto nell’ambito familiare e domestico. Inoltre l’eventuale “terzo”, il quale potrebbe essere indicato al momento della sottoscrizione del servizio, potrebbe beneficiare del servizio solamente in via alternativa – e non condivisa – al contraente.

Ancora, all’interno delle condizioni generali tipologia troviamo chiaramente disciplinata la circostanza che un’eventuale cessione del contratto può avvenire solo previa autorizzazione scritta del titolare del diritti. Fin qui tutto chiaro ed, anzi, direi quasi ovvio: chi investe per produrre contenuti di qualità o per acquisirne i diritti in licenza esclusiva, ha un evidente interesse a fidelizzare i propri clienti consentendo una fruizione dei contenuti su più device all’interno del medesimo contesto famigliare, ma assolutamente non il contrario, che di fatto è una forma di utilizzo parassitario. La fruizione contemporanea dei contenuti poi è – ad eccezione di rari casi in cui viene fatto pagare dal fornitore del servizio un corrispettivo maggiore – sempre vietata, perché sarebbe come se si comprasse un biglietto del cinema per entrare in due…

A ciò si aggiunga che non  risulta che il sito in parola effettui alcun tipo di accertamento funzionale atto a verificare preliminarmente che i servizi offerti dal portale vengano utilizzati effettivamente per sole condivisioni che avvengano in ambito familiare e domestico. In questo modo il servizio potrebbe contribuire alla violazione dei diritti del legittimo titolare e se si tiene conto del fine di lucro che caratterizza la piattaforma, potrebbe emergere chiaramente anche una possibile censura sul piano dell’illecito concorrenziale.

Se queste sono le premesse, siamo risparmiatori o parassiti? Ai posteri l’ardua sentenza…J

Avv. Filippo Catanzaro

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