C’è chi parla di una nuova rivoluzione industriale e chi dice che vi saranno profondi cambiamenti a livello culturale: fatto sta che fino ad oggi – crediamo solo per il momento – non vi è stata ancora quella levata di scudi dei paladini della difesa della proprietà intellettuale contro le stampanti 3D, innovativa tecnologia secondo cui è già possibile effettuare la scansione e la riproduzione materiale di qualsiasi oggetto o figura solida. Ciò principalmente a causa dei costi per accedere a tali tecnologie, ancora piuttosto elevati (intorno ai 1.500 dollari) e quindi non in grado di stimolare opportunamente il consumo di massa.
Va da sé che le maggiori implicazioni di una simile implementazione tecnologica riguardano principalmente la tutela dell’ordine pubblico, essendo stato già dimostrato come simili aggeggi siano perfettamente in grado di riprodurre armi da fuoco, anche di estrazione bellica, funzionanti ed assolutamente efficaci. Il dipartimento USA sulla sicurezza nazionale ha di recente diramato un bollettino per mettere in guardia sulla pericolosità della stampa di armi e sulla necessità di trovare soluzioni giuridiche (assai complesse e non così scontate) per bloccare sul nascere questo fenomeno.
In questa sede, tuttavia, concentreremo le nostre brevi considerazioni circa il possibile impatto delle stampe 3D sulla proprietà intellettuale e, quindi, a catena su cultura ed economia. Allo stato non vi sono restrizioni legali per i (pochi ad oggi) fruitori di stampanti 3D, se non quelle, giuridicamente tipiche, connesse alla violazione di marchi, brevetti ed opere dell’ingegno dei prodotti che si intende copiare. Sarà davvero arduo riuscire a prevedere una soluzione giuridica che possa salvaguardare gli interessi dei titolari dei diritti sulle opere e sui brevetti ed, al tempo stesso, non paralizzare lo sviluppo di ciò che è stato unanimemente etichettato come “la nuova corsa all’oro”. Dal punto di vista micro economico, ad esempio, per il consumatore medio la stampa di oggetti in 3D sarà una manna dal cielo, potendo egli realizzare prodotti personalizzati o copiare quelli esistenti, con risparmi significativi sui costi. Macro economicamente l’impatto sarebbe ancora maggiore, in quanto la nuova tecnologia abbatterebbe di molto alcune voci dei costi di produzione, potendo ciò contribuire a localizzare nuovamente molti processi produttivi che, proprio per gli elevati costi di trasferimento dei materiali da un continente all’altro, si era deciso di decentrare in paesi lontani dall’azienda madre.
Non si vuole arginare “il nuovo che avanza”, ma contestualmente non va negata la necessità di far valere la proprietà intellettuale in nuove e più flessibili forme, sulle quali i governi saranno chiamati a legiferare. Alcuni produttori di misure crittografiche di protezione stanno già sviluppando dei DRM (Digital Right Management) che potrebbero provare ad impedire, tramite un apposito software, la stampa di determinati oggetti.
Riportando il discorso ad una concezione più nazionale, all’interno della legislazione italiana sul diritto d’autore (ed anche nelle parallele normative estere) si potrebbe già rinvenire una soluzione concettuale – ovviamente da adattare in concreto al caso che ci occupa – per garantire, quantomeno, la compensazione dei titolari dei diritti sulle opere indebitamente riprodotte: il diritto di copia privata disciplinato dagli artt. 71 sexies e seguenti della L. 633/1941.
Il compenso per “copia privata” è dovuto per il beneficio che il consumatore trae dalla facoltà data dalla legge di riprodurre legalmente, per uso esclusivamente personale, fonogrammi e videogrammi, senza dover chiedere il preventivo consenso (licenza) di autori, artisti e produttori, titolari di autonomi diritti esclusivi di riproduzione. Tale compenso deve essere corrisposto da chi fabbrica o importa nel territorio dello Stato italiano, allo scopo di trarne profitto, gli apparecchi di registrazione e i supporti vergini ed, allo stesso modo, si potrebbe fare per chi importa e commercializza in Italia stampanti 3D.
Non possiamo, quindi, far altro che auspicare un tempestivo e concreto intervento del legislatore sul tema, anche poiché a breve andranno in scadenza alcuni brevetti chiave, che fino ad ora hanno contribuito a fissare dei paletti nella concorrenza fra produttori di stampanti 3D. E’ quindi facile prevedere come questi aggeggi entreranno ben presto nelle case di ogni consumatore medio di hi tech.
Infine una chiosa per ciò che, fra gli addetti ai lavori, già ha assunto le vesti di un grido d’allarme: la “napsterizzazione” del settore della stampa 3D (il riferimento è, ovviamente, al più popolare sito di scambio di file Mp3 della storia dell’informatica, Napster, fondato nel 1999 da Sean Parker ed in grado di contagiare milioni di utenti internet con il proprio brillante peer to peer). Parker ha senz’altro contribuito a cambiare, in meglio, la cultura del mercato discografico mondiale, ma ha anche messo in ginocchio molte major del settore musicale, in alcuni casi decretandone per giunta il fallimento. Se lo stesso avvenisse con le stampanti 3D, poniamo ad esempio, a pregiudizio delle maggiori case di moda e di design del globo, i danni all’indotto di tali mercati sarebbero difficilmente riparabili e si potrebbe aprire uno scenario davvero critico per l’economia generale.

Filippo Catanzaro

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