Lo scorso 17 ottobre, la High Court inglese ha emesso un’importante sentenza nel procedimento instaurato dalla società Richemont Group – proprietaria di noti brand nel settore del lusso come Cartier, Montblanc e IWC -contro alcuni Internet Service Provider, avente ad oggetto la richiesta di provvedimenti inibitori ed, in particolare, l’ordine ai medesimi di bloccare o impedire l’accesso degli utenti a determinati siti internet (definiti dalla Corte “Target Websites”) rei di pubblicizzare e vendere prodotti contraffatti.

Fino alla decisione in commento, l’autorità giudiziaria del Regno Unito non aveva mai emesso un ordine inibitorio di questo tipo a tutela del diritto di marchio. Infatti, l’art. 97A[1] del Copyright, Designs and Patents Act del 1988, provvedimento legislativo che dà attuazione all’art. 8 della direttiva 2001/29/CE, non si riferisce esplicitamente al diritto di marchio, bensì al solo diritto d’autore.

In buona sostanza, la Corte è stata chiamata ad una applicazione in via analogica della norma in commento, finora mai utilizzata in casi simili.

La vendita online di prodotti contraffatti è una piaga rilevante per le aziende: si registrano perdite finanziarie dovute alle minor vendite, ma anche danni all’immagine derivanti dalla messa in commercio di prodotti di scarsa qualità e dal rischio di confusione per il pubblico. La stessa High Court, nel testo della sentenza, cita uno studio del 2011 – pubblicato da Frontier Economics Ltd – sull’impatto economico e sociale della contraffazione e della pirateria, stimando il valore dei beni piratati e contraffatti presenti sul mercato, entro il 2015, nella cifra di 960 miliardi di dollari.

In riferimento alla misura inibitoria, quando questa può essere adottata nei confronti degli ISP? La Corte inglese parte dal presupposto che gli ISP, cui la misura si rivolge, fossero perfettamente a conoscenza dell’attività illecita svolta dai c.d. Target Websites, essendone stati informati da Richemont. Su questo presupposto, conformemente a quanto deciso con le note sentenze della Corte UE nei casi Scarlett[2] e, da ultimo, Telekabel[3], la Corte ha ritenuto necessario accertare la sussistenza dei seguenti requisiti: la misura inibitoria deve essere efficace, non ingiustificatamente costosa, proporzionata, giusta ed equa e deve tenere in debita considerazione tutti i diritti fondamentali coinvolti.

Ciò che rileva è, quindi, la proporzionalità del mezzo, da valutarsi sulla base di una analisi comparativa dei diversi interessi in gioco, che, nel caso di specie, sono stati individuati nei diritti di privativa industriale di Richemont (unitamente all’interesse pubblico alla qualità dei prodotti in commercio), nel diritto degli ISP di svolgere liberamente la propria attività di impresa e nel diritto degli utenti di internet ad essere informati.

Dal punto di vista dell’efficacia dei provvedimenti inibitori, la sentenza cita una serie di relazioni tecniche volte a verificare l’impatto degli ordini inibitori resi, nel passato, nei confronti degli ISP; i risultati presi in considerazione dall’autorità giudiziaria dimostrano un significativo decremento di traffico sui siti internet bloccati (-71.2%) e un parallelo incremento nel traffico degli altri siti (+ 146%), documentando, così, il valore disincentivante di questa misura.

Per quanto attiene gli interessi economici coinvolti, ed in particolare gli eventuali costi a carico degli ISP, la Corte ha ritenuto che per dare attuazione agli ordini inibitori non si richiede agli ISP di implementare nuove tecnologie, facendo notare come gli stessi siano già in possesso delle capacità tecniche sufficienti ad ottemperarvi.

In ogni caso, a far propendere l’autorità verso l’applicazione delle misure menzionate è anche la considerazione che l’utilizzo di strumenti alternativi quali, ad esempio, il c.d. “payment freezing” (cioè l’invito rivolto ai circuiti di pagamento di bloccare i conti correnti dove vengono accreditate le somme pagate dagli utenti) o la richiesta di sequestro dei nomi a dominio coinvolti, non garantirebbe la medesima efficacia, soprattutto tenuto conto dell’impegno economico che il danneggiato sarebbe chiamato a sostenere.

La Corte ha, infine, ritenuto di dover inserire delle clausole di salvaguardia in provvedimenti di questa natura: in primo luogo, all’interno della pagina bloccata dovrà verrà essere indicato il nominativo del soggetto che ha richiesto il blocco; in secondo luogo, sarà opportuno che il blocco del sito non duri più del necessario inserendo una c.d. “sunset clause” in base alla quale il provvedimento cessi automaticamente allo spirare di un determinato periodo di tempo, salvo che il giudice non ritenga opportuno prorogarne l’efficacia.

La pronuncia inglese, come accennato, costituisce una novità in materia di tutela della proprietà industriale nel web; l’auspicio è che questo provvedimento segni il tracciato per decisioni della medesima natura, non solo nel Regno Unito, ma anche in altri ordinamenti europei.

Ginevra Proia

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[1] 97A Injunctions against service providers.

(1)The High Court (in Scotland, the Court of Session) shall have power to grant an injunction against a service provider, where that service provider has actual knowledge of another person using their service to infringe copyright.

(2)In determining whether a service provider has actual knowledge for the purpose of this section, a court shall take into account all matters which appear to it in the particular circumstances to be relevant and, amongst other things, shall have regard to—

(a) whether a service provider has received a notice through a means of contact made available in accordance with regulation 6(1)(c) of the Electronic Commerce (EC Directive) Regulations 2002 (SI 2002/2013); and  (b)the extent to which any notice includes—

(i) the full name and address of the sender of the notice;

(ii) details of the infringement in question.

[2] C-70/10, Scarlet Extended SA / Société Belge des Auteurs, Compositeurs et Editeurs Scrl (SABAM).

[3] C-314/12, UPC Telekabel Wien GmbH / Constantin Film Verleih GmbH.

 

 

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