Come noto, la direttiva 48/2004/CE prevede, all’articolo 13, che “Gli Stati membri assicurano che, su richiesta della parte lesa, le competenti autorità giudiziarie ordinino all’autore della violazione, implicato consapevolmente o con ragionevoli motivi per esserne consapevole in un’attività di violazione di risarcire al titolare del diritto danni adeguati al pregiudizio effettivo da questo subito a causa della violazione”. Pur escludendo, tale direttiva, che la funzione del risarcimento del danno abbia in questo ambito finalità punitive, ci si è spesso domandati come si possa definire il perimetro del concetto di “danni adeguati al pregiudizio effettivo”.

Soccorre a questi fini, in primo luogo, la Relazione alla proposta di direttiva formulata dal Parlamento europeo, dove si legge che “L’obiettivo principale della presente iniziativa resta quello di realizzare il mercato interno nel settore della proprietà intellettuale garantendo che l’acquis comunitario del diritto sostanziale di proprietà intellettuale venga applicato correttamente nell’Unione europea”. Nella formulazione iniziale, peraltro, il testo del definitivo art. 13 cit. prevedeva espressamente forme di quantificazione predeterminate del danno liquidabile nella materia della proprietà intellettuale: “il paragrafo 1 conferma il principio secondo il quale va risarcito il danno subito a causa di una violazione commessa per dolo o per colpa. Esso stabilisce pertanto che la parte lesa ha diritto a) a un risarcimento mediante il pagamento di un importo forfettario pari al doppio dell’ammontare delle royalty o dei diritti che avrebbero dovuto esserle riconosciuti nel caso in cui l’autore della violazione avesse richiesto l’autorizzazione per l’uso del diritto in questione (l’obiettivo della disposizione è quello di prevedere un risarcimento totale del danno subito, che il titolare del diritto ha talvolta difficoltà a quantificare)”.

Direttamente connesso con il tema del quantum dei danni risarcibili nella materia di interesse dai giudici nazionali è quindi quello dell’ammissibilità, in termini generici, di liquidazioni di danni che abbiano anche funzioni “sanzionatorie”.

In ambito europeo la Corte di giustizia si è più volte espressa sul punto.

Anche se l’oggetto della decisione concerne attività anticoncorrenziali (e non la proprietà intellettuale), già nell’ambito dei procedimenti riuniti C- 295-298/04, prima l’Avvocato generale e poi la Corte europea, hanno affrontato, tra le altre, la seguente questione pregiudiziale: “Se l’art. 81 del Trattato debba essere interpretato nel senso che il giudice nazionale, ove ravvisi che il danno liquidabile in base al proprio diritto nazionale sia comunque inferiore al vantaggio economico ricavato dall’impresa danneggiante parte dell’intesa o della pratica concordata vietata, debba altresì d’ufficio liquidare al terzo danneggiato il danno punitivo, necessario a rendere il danno risarcibile superiore al vantaggio ricavato dal danneggiante, al fine di scoraggiare la posizione in essere di intese o di pratiche concordate vietate dall’art. 81 del Trattato”. Già poco tempo dopo l’entrata in vigore del Trattato CEE la Corte ha dichiarato che i divieti di cui agli artt. 81 e 82 CE hanno efficacia diretta e impongono quindi ai giudici nazionali di tutelare i diritti che i cittadini comunitari possono trarre da tali disposizioni. Anche tale questione va risolta alla luce dei principi di equivalenza e di effettività. Così, rileva l’Avvocato generale, “la legislazione federale antitrust americana  prevede la possibilità di chiedere «treble damages» (danni tre volte superiori). Non c’è bisogno di dimostrare che, se viene data la possibilità di chiedere un risarcimento tre volte superiore al danno subito, l’importo da versare a titolo di danni può risultare assolutamente enorme. Il legislatore federale americano ha espressamente voluto l’effetto deterrente che ne deriva”. Anche se in ambito comunitario non sono presenti norme equivalenti, alcuni Stati prevedono, nell’ambito delle azioni per il risarcimento dei danni, anche la possibilità di liquidare danni punitivi o di sanzioni esemplari (ad es. Irlanda, Gran Bretagna, Cipro). L’Italia non rientra fra questi Stati. Nella maggioranza degli Stati membri prevale l’opinione che il risarcimento dei danni debba in primo luogo servire a riparare il pregiudizio causato dal comportamento anticoncorrenziale vietato e non a procurare al danneggiato un vantaggio economico. Allo stesso tempo però, osserva sempre l’Avvocato generale, “il diritto comunitario non s’oppone ad un approccio di quest’ultimo tipo”. Pertanto, “Mancando norme comunitarie a questo riguardo, spetta al diritto interno di ciascuno Stato membro il compito di fissare i criteri per la liquidazione del danno, purché tali criteri non risultino meno favorevoli di quelli applicati ad analoghe pretese fondate sul diritto interno ed il risarcimento del danno non venga reso impossibile od estremamente difficile” (vd. per analogia per analogia, sentenza 5 marzo 1996, cause riunite C-46/93 e C-48/93). Sulla base delle medesime considerazioni, anche la Corte europea ha concluso affermando i seguenti principi di diritto: “Pertanto, da un lato, in conformità del principio di equivalenza, se un risarcimento danni particolare, come il risarcimento esemplare o punitivo, può essere riconosciuto nell’ambito di azioni nazionali analoghe alle azioni fondate sulle regole comunitarie di concorrenza, esso deve poterlo essere anche nell’ambito di queste ultime azioni. Tuttavia, il diritto comunitario non osta a che i giudici nazionali vigilino affinché la tutela dei diritti garantiti dall’ordinamento giuridico comunitario non comporti un arricchimento senza causa degli aventi diritto. D’altro lato, dal principio di effettività e dal diritto del singolo di chiedere il risarcimento del danno causato da un contratto o da un comportamento idoneo a restringere o a falsare il gioco della concorrenza discende che le persone che hanno subìto un danno devono poter chiedere il risarcimento non solo del danno reale (damnum emergens), ma anche del mancato guadagno (lucrum cessans), nonché il pagamento di interessi”.

Più recentemente (causa C-367/15), la Corte di Giustizia è nuovamente intervenuta sul tema che qui interessa, nella specifica materia della violazione dei diritti d’autore.

Una delle questioni pregiudiziali demandate alla decisione della Corte è “se l’articolo 13 della [direttiva 2004/48] possa essere interpretato nel senso che il titolare di diritti patrimoniali d’autore che siano stati violati può chiedere la riparazione dei danni da esso subiti sulla base dei principi generali, oppure se, senza dover dimostrare il danno ed il nesso di causalità tra il fatto generatore della violazione dei suoi diritti ed il danno, possa esigere il pagamento di una somma di denaro di importo equivalente al doppio o, nel caso di violazione colposa, al triplo della remunerazione adeguata”.

Nell’ambito della causa C-367/15, la Corte di giustizia, ha confermato il principio di diritto proposto dall’Avvocato generale, affermando che Pertanto, l’articolo 13, paragrafo 1, secondo comma, lettera b), della direttiva 2004/48 deve essere interpretato nel senso che non osta a una normativa nazionale, come quella di cui al procedimento principale, che prevede che il titolare di diritti patrimoniali d’autore che siano stati violati può chiedere all’autore della violazione di tali diritti il risarcimento dei danni da esso subiti mediante il versamento di una somma equivalente al doppio di un canone ipotetico. Tale interpretazione non può essere rimessa in discussione dal fatto, in primo luogo, che un risarcimento calcolato sulla base del doppio del canone ipotetico non è esattamente proporzionale al danno effettivamente subito dalla parte lesa. Infatti, tale caratteristica è intrinseca ad ogni risarcimento forfettario, come quello espressamente previsto all’articolo 13, paragrafo 1, secondo comma, lettera b), della direttiva 2004/48”.

In ambito nazionale, come è noto, un’importante apertura della Corte di Cassazione a Sezioni Unite verso l’ammissibilità di componenti sanzionatorie del danno risarcibile ha trovato riconoscimento nell’ordinanza Cass. Civ. 16.5.2016 n. 9978 e nella successiva sentenza Cass. Sez. Uni. 5.7.2017 n. 16601 (di cui abbiamo già discusso qui).

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