“La serenità, la buona coscienza, la lieta azione, la fiducia nel futuro dipendono [..] dal fatto che si sappia tanto bene dimenticare al tempo giusto, quanto ricordare al tempo giusto”.Così si è espresso Friedrich Nietzsche, il filosofo e poeta tedesco che ebbe la capacità di influenzare il pensiero filosofico, letterario, politico e scientifico del Novecento.
Oggi il “ricordo” sta diventando un incubo per molti. Contenuti (anche potenzialmente umilianti) presenti sui Social network restano conservati e potranno essere rivisti in futuro dai navigatori della Rete. I motori di ricerca memorizzano quando e che cosa è stato cercato. Il web ricorda anche quello che sarebbe meglio venisse dimenticato, e questo ha profonde implicazioni, anche in termini di privacy.
Viviamo un momento di pieno contrasto. Da un lato abbiamo a disposizione una miriade di informazioni e possiamo fare affidamento su strumenti sempre più potenti per ottenerle. Dall’altro ci rendiamo conto che la cornucopia di dati e informazioni può generare situazioni ingestibili e non controllabili. E ciò con particolare riferimento ai diritti inviolabili della persona, di cui l’oblio fa parte.
Questo articolo non ha certo l’ambizione di risolvere il dilemma in ordine all’oblio e al ricordo ma di aiutare il lettore, una volta uscito dalla propria comfort zone, a riflettere in ordine a ciò che può essere considerato ancora di interesse pubblico e valutare in capo a quali soggetti dovrebbero ricadere le responsabilità per la pubblicazione delle notizie.
Consultando una delle enciclopedie online più famose si apprende che “la giurisprudenza ha da tempo affermato che è riconosciuto un diritto all’oblio, cioè il diritto a non restare indeterminatamente esposti ai danni ulteriori che la reiterata pubblicazione di una notizia può arrecare all’onore e alla reputazione, salvo che, per eventi sopravvenuti, il fatto precedente ritorni di attualità e rinasca un nuovo interesse pubblico all’informazione”.
E ancora utilizzando diversi motori di ricerca si comprende come il diritto all’oblio sia stato riconosciuto in più occasioni dal Garante per la protezione dei dati personali che, ad esempio, ha affermato in un caso la legittima opposizione di un individuo alla diffusione televisiva della propria immagine a distanza di molti anni dal termine di un processo, in quanto suscettibile di porre a rischio la propria ”rinnovata dimensione sociale e affettiva“ in altra occasione ha sottolineato la necessità di intervenire anche sui motori di ricerca per ottenere la definitiva cancellazione dei vecchi file ritenendo non sufficiente la semplice cancellazione delle pagine del sito web sorgente e da ultimo che gli enti pubblici possano continuare a pubblicare sul proprio sito le decisioni emesse, dovendo predisporre però una sezione dedicata, liberamente consultabile, ”ma tecnicamente sottratta alla diretta individuabilità delle decisioni in essa contenute per il tramite dei comuni motori di ricerca esterni” e ciò per assicurare il bilanciamento con il diritto all’informazione che deve essere assicurato anche a una certa distanza temporale, quando si tratti di fatti particolarmente gravi o di informazioni ritenute «essenziali» perché inerenti a persone che ricoprono o che hanno rivestito importanti ruoli pubblici
L’argomento è stato anche oggetto di una proposta di legge presentata nel maggio del 2009 su iniziativa del deputato Lussana. Il fine era quello di riconoscere ai cittadini la garanzia che, decorso un certo lasso temporale, le informazioni (immagini e dati) riguardanti i trascorsi giudiziari di un soggetto non fossero più direttamente attingibili da chiunque.
Successivamente, e precisamente a far data dal gennaio 2012, la Commissione Europea, ha avviato l’iter di approvazione di un pacchetto di riforme composto da un “Regolamento del Parlamento Europeo e del Consiglio sulla protezione delle persone in relazione al trattamento dei dati personali ed alla libera circolazione di tali dati” e da una direttiva specifica per la gestione dei dati personali in casi di carattere giudiziario e ordine pubblico (c.d. proposta Reding). Il Regolamento ha consacrato il diritto all’oblio all’art.17 (“Right to be Forgotten”) stabilendo il diritto ad ottenere la cancellazione del dato personale al ricorrere di determinate ipotesi fra le quali la decadenza delle esigenze che furono sottese all’utilizzo del dato all’epoca in cui esso fu posto in essere – spesso l’esigenza di cronaca.
Peraltro i due complessi di norme e principi presentati al Parlamento europeo sono stati anticipati da Viviane Reding, al “Digital Life Design“, una grande conferenza di cultura digitale tenutasi a Monaco dove erano presenti i giganti del web in ansiosa attesa di conoscere come potrebbe cambiare il modo in cui usiamo Internet.
Anche in tale occasione la Reding ha tenuto a chiarire, fra le altre cose, che gli archivi dei giornali sarebbero esclusi dal diritto all’oblio poiché “il diritto a essere dimenticati non può significare il diritto a cancellare la storia”. In altre parole deve essere garantita la possibilità di conservazione e di consultazione per finalità di ricerca storica, anche in assenza di consenso dell’interessato, purché risulti un oggettivo e rilevante interesse pubblico, sempreché il trattamento avvenga nel rispetto della dignità personale, della pertinenza e veridicità delle notizie, nonché del diritto all’identità.
Ciò nonostante, secondo alcuni, tale eccezione, potrebbe non essere sufficiente, in ragione del fatto che molte informazioni sono reperibili nei blog e nei siti di citizen journalism. Per molti il pensiero della Reding potrebbe quindi rappresentare un problema nella misura in cui fosse permesso a chiunque di pretendere la rimozione di un contenuto sgradito che lo riguarda.
E qui si giunge alla questione dell’individuazione dei soggetti in capo ai quali dovrebbero ricadere le responsabilità in ordine alla pubblicazione dei contenuti.
In argomento, il 6 novembre 2013 il Tribunal de Grande Instance di Parigi ha ordinato a Google di bloccare l’indicizzazione delle immagini relative alle pratiche sadomasochiste di Max Mosley diffuse nel 2008 da un magazine inglese già condannato da un Tribunale di Londra ad un risarcimento per violazione della privacy.
In particolare, l’ex Presidente della F1 si era rivolto al Tribunale parigino per chiedere l’imposizione a Google di un “filtro” sui risultati offerti dal motore di ricerca. La società di Mountain View, si era dichiarata favorevole alla rimozione dei link previa segnalazione di Mosley ma si era fermamente opposta alla richiesta di inserire un filtro preventivo e ciò al fine di evitare ”un allarmante nuovo modello di censura automatica”.
Il giudice ha tuttavia respinto le eccezioni di Google che è stata quindi condannata ad un risarcimento simbolico, al pagamento delle spese legali e a cui è stata imposta la rimozione delle immagini e l’obbligo di sorveglianza su eventuali nuove pubblicazioni stabilendo una penale per ogni eventuale inottemperanza al provvedimento.
Nella società digitale, il diritto ad essere dimenticati non può essere ‘dimenticato’.
Luca Silva
© Riproduzione riservata