Tanto se ne sta parlando in questi mesi ed in Italia l’entrata in vigore della legge sulla cosiddetta web tax, presentata come emendamento alla Legge di Stabilità del Governo Letta, è stata rinviata con il Decreto Milleproroghe, al luglio 2014.

La norma, originariamente pensata dall’On. Boccia, prevede l’obbligo per le web company che non hanno una stabile organizzazione in Italia, ma che raccolgono pubblicità nel nostro paese, di dotarsi di una partita IVA Italiana, ed in tal modo assolvere alle imposte in Italia. La norma impone inoltre che l’acquisto di servizi pubblicitari on line o di servizi ausiliari deve essere effettuato esclusivamente mediante bonifico bancario o postale dal quale devono risultare i dati identificativi del beneficiario ovvero con altri mezzi di pagamento tracciabili che siano in grado di veicolare la partita IVA del beneficiario.

L’obiettivo è chiaro: le web company che non hanno una stabile organizzazione in Italia, ma operano in Italia vendendo spazi pubblicitari, devono pagare le tasse per gli utili realizzati in Italia, al fisco Italiano. Oggi invece molte società multinazionali operano sul territorio italiano vendendo spazi pubblicitari, realizzando utili, sui quali però pagheranno (forse) le imposte in paesi che offrono un regime fiscale particolarmente favorevole (cosiddetta delocalizzazione all’estero dei profitti).

Per ridurre il proprio carico fiscale, infatti, molte società multinazionali digitali si sono avvantaggiate di tassazioni più agevolate. In che modo? Google, ad esempio, sostiene di non avere una stabile organizzazione in Italia (la filiale di Milano farebbe solo assistenza –marketing services – alla sede irlandese), ed i contratti di advertising stipulati nel nostro paese riportano una formale intestazione alla società Google Ireland. In tal modo la multinazionale americana, in ragione della normativa fiscale maggiormente favorevole, trasferisce in Irlanda i profitti realizzati operando nel nostro Paese.

Da stime effettuate, dal 2002 al 2006 Google avrebbe realizzato in Italia un giro di affari pari a circa 237 milioni di euro, e non avrebbe versato all’erario Italiano imposte per circa 80 milioni di Euro. Dal 2006 ad oggi il fatturato realizzato da Google sarebbe notevolmente cresciuto, in Italia i ricavi del gruppo avrebbero superato 400 milioni di Euro nel 2009, 550 milioni di Euro nel 2011 e 700 milioni nel 2012, a fronte di un mancato versamento di imposte stimato per centinaia di milioni (Fonte: Commissione Finanza – Camera dei Deputati – Novembre 2012).

Stesso gioco anche per Facebook: nel 2012 la società ha versato al fisco d’Irlanda 1,9 milioni di Euro di tasse su 1,75 miliardi di profitti lordi (poco più dell’1 per mille).

Ma torniamo alla web tax: la nuova norma verrà inserita nel Dpr n. 633 del 1972 (Legge IVA) all’articolo 17 bis. Il termine “Web Tax” (rinominata da molti “Google tax”) a mio avviso è fuorviante. Non mi risulta che le web company possano godere di un regime fiscale differente dalle altre aziende operanti nel territorio italiano. Qual’ è allora il problema? Nelle vendite di beni e di servizi on line, è difficile individuare la “territorialità” del venditore e anche, alle volte, il luogo di utilizzo o di fruizione del bene/servizio offerto.

Con la normativa che entrerà in vigore il primo di luglio, in concreto, si è cercato di dare cogenza (anche per le vendite di advertising on line) al principio dell’articolo 7-ter del DPR n. 633 del 1972 che espressamente prevede che le prestazioni di servizi si considerano effettuate nel territorio dello Stato quando sono rese a soggetti passivi stabiliti nel territorio dello Stato. E da qui di conseguenza l’obbligo per chi acquista servizi on-line in Italia, di poter negoziare solo da soggetti in possesso di partita Iva italiana. Al fine di tassare i profitti delle società estere che forniscono servizi on-line a soggetti stabiliti nel territorio italiano, la norma impone che tali servizi “transitino” sempre per una partita IVA italiana.

Tale norma ha subito parecchie critiche: qualsiasi soggetto non residente in italia ha la possibilità di richiedere un numero di partita IVA italiana nel caso in cui effettui in Italia cessioni di beni o prestazioni di servizi soggetti ad imposta. La semplice identificazione in italia mediante l’apertura di una partita IVA non ha, di fatto, l’effetto (sperato) di modificare lo status del soggetto non residente, in soggetto residente e dunque l’attrazione nella nostra giurisdizione degli eventuali profitti (con conseguente imposizione fiscale) nel nostro Paese. Tale ultimo effetto si può verificare nel caso in cui il soggetto non residente abbia una stabile organizzazione nel territorio italiano e non semplicemente identificato ai fini IVA. La proposta dunque non appare, ad una prima analisi, in grado di raggiungere il principale obiettivo che si prefigge.

Ulteriori obiezioni arrivano dall’Unione Europea, dove è stata ritenuta incompatibile con il diritto comunitario. Obbligare le aziende italiane ad avere rapporti commerciali esclusivamente con soggetti titolari di partita Iva italiana sarebbe, a detta di molti, in contrasto con i principi generali del diritto comunitario che sanciscono la libertà di circolazione dei servizi nella comunità europea.

Il tema della tassazione dell’industria digitale deve infatti essere condiviso a livello comunitario ed internazionale. La Commissione Europea si è già espressa nel creare un gruppo di esperti a livello comunitario focalizzato sull’analisi e lo studio della tassazione dell’economia digitale ed ha di recente avviato una serie di iniziative finalizzate a cercare di contenere il fenomeno alla luce delle nuove forme di business internazionali che in qualche modo devono rispettare i regimi di tassazione di ogni stato membro della comunità Europea.

Valeria Ghigna

 

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